Il nuovo AI Action Plan presentato dall’amministrazione Trump il 23 luglio 2025 rappresenta una svolta strategica che mira a collocare l’intelligenza artificiale al centro della politica economica e geopolitica statunitense. Non si tratta solo di misure operative: il piano è una vera dichiarazione d’intenti che punta a consolidare il primato tecnologico degli Stati Uniti nel mondo, in particolare nel confronto con la Cina. Uno degli obiettivi principali è promuovere massicciamente l’esportazione di tecnologie AI americane, trasformandole in uno standard globale. L’iniziativa si avvale di strumenti finanziari pubblici, come la Export-Import Bank, per favorire la penetrazione nei mercati dei Paesi alleati, con l’intento di renderli tecnologicamente dipendenti da soluzioni made in USA. Allo stesso tempo, si intensificano i controlli sulle esportazioni verso la Cina, considerata un rivale sistemico, in una riedizione della corsa agli armamenti tecnologici.

Il piano statunitense prevede meno vincoli normativi e più incentivi pubblici, con un’azione mirata alla deregolamentazione a livello federale. Le principali agenzie governative sono invitate a eliminare le norme considerate d’ostacolo all’innovazione, imponendo un’uniformità legislativa che annulli le restrizioni dei singoli Stati. Il piano agisce anche sul piano culturale: i sistemi AI con connotazioni ideologiche ritenute “sbilanciate” non potranno essere adottati dalle amministrazioni pubbliche, in nome di una presunta “neutralità” che rischia però di confliggere con i principi costituzionali.

Un altro punto controverso riguarda il copyright: l’addestramento dei modelli AI su contenuti protetti viene considerato legittimo, assimilando l’azione delle macchine alla lettura umana. Questa interpretazione, che esclude la necessità di autorizzazioni, ha suscitato forti reazioni nel mondo editoriale e creativo, aprendo la strada a una potenziale ondata di contenziosi legali.

Le conseguenze del piano sono molteplici. Le grandi aziende tecnologiche americane, come Microsoft, OpenAI, Meta o Nvidia, traggono enormi benefici da questo clima politico favorevole, ottenendo agevolazioni normative e accesso facilitato a contratti pubblici. Gli investimenti infrastrutturali in programma superano i 1.500 miliardi di dollari. Parallelamente, l’influenza del settore privato nella definizione delle politiche pubbliche diventa sempre più evidente, alimentando un sistema in cui tecnologia, finanza e governo si sostengono reciprocamente.

Rispetto alla precedente amministrazione Biden, orientata alla regolazione e alla trasparenza, l’approccio di Trump è radicalmente diverso: punta alla velocità d’implementazione e alla competizione internazionale, trasformando l’AI in una leva ideologica oltre che tecnologica. L’intelligenza artificiale diventa così un campo di battaglia culturale, in cui si misura l’egemonia semantica e si influenzano i contenuti stessi del discorso pubblico. In prospettiva, il piano potrebbe rafforzare il dominio globale americano, riducendo lo spazio d’azione di altri attori come l’Unione Europea. Quest’ultima, con l’AI Act, promuove un modello fondato su diritti, trasparenza e tutela, che rischia però di risultare lento e poco competitivo. Se Bruxelles non riuscirà a bilanciare regolazione e innovazione, rischia di essere emarginata nel nuovo ordine tecnologico globale.

Negli Stati Uniti stessi, l’assenza di una normativa federale univoca potrebbe generare tensioni interne, soprattutto con Stati come la California, da sempre attenti alla regolazione delle tecnologie emergenti. Inoltre, la legittimazione dell’uso libero dei contenuti coperti da copyright potrebbe innescare conflitti legali globali.

Infine, la costruzione accelerata di infrastrutture AI, alimentata da incentivi pubblici e deregolamentazione, rischia di creare nuove dipendenze strategiche, rafforzando il divario tra esportatori e importatori di tecnologia. In questo scenario, ogni scelta normativa assume una valenza geopolitica. L’Europa è chiamata a una risposta decisa per non essere marginalizzata.